A cura di Giulia Moiraghi
Recentemente ho sentito il mio maestro filosofo Carlo Sini ricordare una frase che per me era stata di svolta e che mi aveva aperto la strada verso lo yoga una seconda volta, dopo che per alcuni anni me ne ero allontanata:
“Dobbiamo liberarci dall’idea che la filosofia stia nei libri,
la filosofia non sta nei libri, sta nell’esperienza, sta nella vita”.
Da filosofa in erba quale ero prima che lo yoga tornasse nella mia vita e la capovolgesse, ero suggestionata da una vaga idea della gioia, connessa con un’immagine di me come giovane docente ricercatrice tributata di riconoscimento, rispetto e stima da parte della comunità filosofica. Per avvicinarmi a questa immagine studiavo senza posa, scrivevo e mi davo un sacco da fare.
Iniziavo però ad avere un forte sentore del fatto che tutte queste attività che svolgevo in vista di altro, di questo domani glorioso che sognavo, prese in se stesse mi risultavano spesso sforzate, noiose, anche un po’ aride, oltre che estremamente faticose. Mi ritrovavo ad impormi di scrivere o studiare in un pomeriggio di sole in cui tutte le mie cellule avrebbero voluto uscire, giocare, celebrare l’esistenza.
Quello che ad un certo punto capii è che tutto ciò che viene fatto per ottenere un risultato nel futuro non è fonte di gioia. Per far fronte alle richieste della vita di tutti i giorni può rivelarsi necessario compiere varie azioni in vista di obiettivi futuri, non c’è nulla di male in ciò, anzi è indispensabile. Bisogna stare attenti però a non illudersi, come fanno molte persone “in carriera”, che la gioia possa essere racchiusa in qualcosa che verrà, quando avremo ottenuto quel risultato, quel premio, quell’avanzamento di carriera, quando saremo diventati “qualcuno”, o avremo incontrato “qualcuno” che darà senso. È il desiderio mentale che si nutre della distanza, la gioia si può nutrire solo della presenza. Nietzsche, inoltre, ci ha insegnato che il desiderio di riconoscimento, di piacere, di risultare attraenti (fisicamente o intellettualmente) è molto meno innocuo di quello che sembra. Dietro vi è, molto ben celata, la volontà di primeggiare sugli altri e quindi di essere invidiati. Tutto ciò non può che portarci veramente lontani dalla gioia che non è mai legata ad un oggetto e tanto meno a una condizione di potere sugli altri, ma è un’esperienza del tutto spontanea che si fa inevitabilmente solo qui e ora, per ciò che si sta provando in questo momento in una dimensione di apertura:
“Quando la mente è sgombra, la gioia segue come un’ombra che non ci lascia mai” (Buddha).
Questo è il senso. La gioia è il senso.
Anche la filosofia se viene praticata come apertura alle vertigini di ciò che affiora inaspettatamente è gioia. Se invece si cerca di capitalizzarla, trasformandola in una carriera e sbilanciandola dalla parte dello specialismo e del tecnicismo, la si intellettualizza e, come diceva Husserl, nella frase sopracitata dal mio maestro, la si sradica dalla vita vissuta, e quindi dalla gioia.


Ma cos’è la gioia per me ora?
Non è un’idea. È una pratica. È l’esperienza del fatto che anche se ho avuto una giornata pesante, nella quale si sono fatti sentire acciacchi fisici, nella quale mi si sono presentati una serie di intoppi, di difficoltà una dopo l’altra, nella quale i miei sentimenti magari si sono aggrovigliati e i miei affetti si sono infranti contro gli spigoli di un’altra persona, io sono in grado, al di là di tutte le avversità, di mettermi in ascolto della vitalità che si muove dentro di me e celebrare il mio essere al mondo.
Ecco che allora inizia a sorgere dentro di me un calore, una luce, una meraviglia che mi fa ammorbidire gli angoli della bocca, mi decontrae i corrucciamenti della fronte, mi scioglie la durezza nel petto, mi apre alla fondamentale bellezza che c’è negli altri nonostante le ferite che ci possono arrecare.
Mi viene voglia di ridere e il cuore vuole saltare. Questa è Ananda, la beatitudine, la gioia, di cui parlano le scritture indiane.
Mentre in Occidente il concetto della “beatitudine” è spesso preso come alternativo a quello di “verità”, e di “consapevolezza” (creando in noi il sospetto che a indugiare nella gioia si rischi di dimenticare la questione della verità o si perda la consapevolezza) nelle Upanishad troviamo Sat – Chitta – Ananda.
Satchittananda.
Un’unica nozione che include in sé la “verità” (sat), la “consapevolezza” (chitta) e la “beatitudine” (ananda).
Non ci può essere per l’Oriente alcuna verità priva di beatitudine.
Non ci può essere consapevolezza e verità nel dolore, a differenza di quello che a volte noi occidentali, segnati dalla tradizione cattolica, sospettiamo.
Solo attraverso ciò che è “agio”, “gioia” (sukha), possiamo raggiungere l’Essere. Patanjali la chiama così negli Yogasutra descrivendo l’asana: stabile e agevole, nel senso di gioioso.
Secondo alcune paraetimologie yoga e gioia condividerebbero la radice comune “Yuj”.
Yoga, gioia, gioia, yoga, gioga….in effetti suona molto molto bene: quasi un mantra.
E quindi dobbiamo stare più che mai attenti a non far cadere anche l’hatha-yoga nella trappola dell’anti-yoga e dell’anti-gioia, ossia praticare in vista di altro, di una méta che ora non c’è. Ad esempio, per raggiungere una postura che farà restare gli altri a bocca aperta, anche a costo di imporci un esercizio severo e doloroso. Se non apriamo le porte allo sbocciare della gioia e dello yoga in questo momento, essi non giungeranno in seguito!
Lasciamoli affiorare qui e ora per quelle piccole cose che ci sono già e a cui magari semplicemente non stiamo prestando attenzione: il soffice della coperta che ci avvolge, il canto delizioso di un uccellino, il sorriso appena ricevuto, la tenera fragilità percepibile all’altezza del cuore. Una volta che ci alleniamo a conceder loro spazio e attenzione, esse cresceranno, si moltiplicheranno, contageranno la nostra vita, allargando gli orizzonti, rendendoci più flessibili (anche mentalmente), più in grado di processare le informazioni e più creativi.
Non aspettiamo di avere un buon motivo per sorridere agli altri e a noi stessi, come dice il maestro Tich Nhat Hanh:
“A volte la tua gioia è la fonte del tuo sorriso, ma spesso il tuo sorriso può essere fonte della tua gioia”.

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